Nessuno, neppure il più impavido dei sedicenti esperti di SEO, può dichiarare di conoscere intimamente l’algoritmo di Google.
E questo non solo perché esso si basa su una serie considerevole di fattori ma anche perché la sua continua evoluzione rende difficile, se non impossibile, seguirne lo sviluppo in tempo reale. Basti considerare che negli ultimi anni siamo passati da un mero concetto di “parola chiave”, di cui in molti si sono riempiti la bocca, a un sistema decisamente più complesso che vanta ben pochi VERI esperti in Italia.
I tempi dell’abuso, al limite dell’idiozia, di keyword e hyperlink, in testi già di per sé di scarso livello per migliorare il posizionamento in Google, sono finalmente tramontati?
Difficile stabilirlo. Affinché queste pratiche diventino definitivamente parte del giurassico del www, copywriter e Google dovrebbero essere sincroni nella loro evoluzione. Ma tant’è, guardando i testi in cui mediamente ci si può imbattere nel web allargato, beh, la risposta appare scontata…
Ciò che è certo è che dietro l’algoritmo di Google si nasconde una filosofia d’impresa ovverosia la consapevolezza del gigante californiano che per essere grandi occorra essere davvero grandi. E non è una questione di dimensioni. Si può essere grandi pur essendo piccoli. Ciò che rende grandi non è tanto l’informazione che lanciamo in rete quanto quella di ritorno che ne misura la credibilità, l’attendibilità, l’utilità, l’autorevolezza. È l’interazione reale di un’utente con un sito a diventare la chiave del successo nel web. Se ti cerco, ti trovo, ti leggo, compilo il tuo form, parlo (bene) di te, ti commento, ti recensisco, ritorno, indugio su un tuo contenuto multimediale, navigo in modalità tutt’altro che mordi e fuggi, Google si accorge di te e ti premia.
Possiamo allora concludere che Google stia tentando di ricostruire in rete la meritocrazia che latita nella nostra società? Non possiamo affermare con certezza che la formalizzazione di un pensiero autenticamente democratico sia la causa o l’effetto del nuovo algoritmo del “giocattolo” ideato da Larry Page e Sergey Brin. Sicuramente possiamo dire che Google ci premia nel momento in cui sviluppiamo un testo con intelligenza, onestà ed efficacia. Con i mezzucci e i SEO specialist da quattro soldi l’insuccesso è assicurato e finalmente sono in tanti quelli che se ne stanno via via accorgendo. Non importa misurare il livello di moralità del più importante motore di ricerca al mondo: forse da quelle parti non saranno così neoromanticamente liberali ma sicuramente non sono stupidi. Evidenziare a caratteri cubitali i contenuti sponsorizzati, quasi a prenderne sinotticamente le distanze, e premiare quelli che il mercato, le organizzazioni, le persone vorrebbero vedere sempre in cima ad ogni chart, significa proteggere e rafforzare la propria leadership. Chi crederebbe più a Google se ogni volta che ricerchiamo qualcosa dovessimo trovare solo contenuti furbi ma inutili, fuorvianti e talvolta indecenti?
Senza contare poi che la cosiddetta “SERP”, più semplicemente la pagina di risposta ad una nostra query, muti continuamente in base ad una serie di variabili, spesso legate alla conoscenza che il re dei search engine ha delle nostre abitudini di navigazione, dei nostri interessi, della nostra geolocalizzazione. Ed è sorprendente vedere come i paradigmi dell’AI qualche volta ci inducano a pensare che qualcuno lì dentro il nostro screen ci stia leggendo nel pensiero…
Più volte mi è capitato di sfidarlo, scrivendo frasi apparentemente sconclusionate e facendomi suggerire da “lui” cosa volessi realmente dire. Il risultato è che i suoi suggerimenti sono sempre più azzeccati. E che gli esiti delle ricerche sono presentati in modalità “zero-click”: scrivo parole disordinate, mi viene suggerito ciò che sto realmente cercando e infine mi vengono proposti dei risultati di cui posso vedere già nell’anteprima la risposta e capire se valga o meno la pena fare quel click in più per visitare un sito che, quasi sempre, sarà comunque velocissimo a caricarsi (sì, perché la velocità è, anch’essa, un criterio premiante!).
Ma Google asseconda solo la mia pigrizia o ha piuttosto metabolizzato un comportamento sociale che vede nella velocità una delle chiavi dell’information sharing? A voi che mandate infiniti vocali, anche solo per non digitare tre parole in croce su una querty, l’ardua sentenza…
In conclusione, è chiaro che Google ci stia chiedendo di fare bene i compiti a casa. Niente di più che metterlo in condizione di aiutarlo a capire di cosa stiamo parlando e a che titolo ne stiamo parlando, in modo da fornire ai propri utenti un’esperienza sempre più curata, veloce e puntuale. E se siamo in grado di farlo, di non millantare attirando un utente che poi (pure incazzato) esce a tempo di record da un sito che non fornisce quello che ha promesso, ci ricambia portandoci, GRATUITAMENTE su un vassoio d’argento, una selezione di persone realmente interessate a noi. Mica male no?
Google, il mondo che vorrei